1- Anna B Savage – In Flux
Vince un nome particolare, quello di Anna B Savage. Un nome che è riuscito a imporsi nonostante un disco uscito nel febbraio di quest’anno: per superare un intero anno di ascolti bisogna avere le spalle forti e questa esile ragazza inglese capace di tirare fuori una voce diversissima e una scrittura musicale più che interessante ce le ha. Vince (sugli altri bei dischi) anche per lo splendido live al Covo di Bologna e per il coraggio. Basti pensare alla canzone che dà il titolo al disco, in Flux, che inizia in maniera semplice e finisce per essere quasi una scatenata danza jazz impazzita, o per l’iconica The Ghost (che ho raccontato in questo episodio del mio podcast). Un pò sulla traccia di Fiona Apple, Anna B Savage vince quest’anno il miglior disco con l’idea di avere visto una stella nascere: nel futuro c’è tanto spazio per lei.
2. Daniela Pes – Spira
Un caso rarissimo: un disco italiano. Un caso rarissimo, un esordio italiano. Un caso rarissimo: un disco italiano che è riuscito da solo con un pugno di tracce a crearsi un sottoculto sempre più forte, a finire sulla bocca di tutti, ad essere citata ovunque, come non capita quasi mai in questi anni di streaming frammentato. Ad oggi, a ciclo del disco abbastanza esaurito, Daniela Pes ha 25mila ascoltatori quotidiani sul solo Spotify, che per un disco cantato in sostanza con parole inventate, con momenti sospesi tra elettronica, tradizione della Sardegna e vette oniriche, è follia. Eppure funziona, a volte sfiora anche gli ultimi Portishead, a volte è Iosonouncane (in grossa cabina di regia) ma al di là dei facili nomi è un disco che sa di magia. Una canzone accessibile in cui gettarsi?
3. Sufjan Stevens – Javelin
Da due voci freschissime a quello che è ormai un monumento, Sufjan Stevens. Per qualche motivo mi dà fastidio, quasi, doverlo inserire. Nell’idea di andare sempre alla ricerca di esperienze nuove, non dovrei includerlo. E poi è vero, questo disco è quasi (quasi eh) un secondo atto di Carrie And Lowell, c’è quel pizzicare di chitarra, la voce angelica, i cori, la sofferenza raccontata. Eppure, cosa non è “Will Everybody Ever Loved me?”. Eppure, quanto c’è della vita, dei dolori, delle tragedie, delle sofferenze, qui dentro? E come si fa, allora, a non amare questo Javelin?
4. Black Country, New Road – Live at Bush Hall
Un live come disco da ricordare? Si, perché questo è un disco di inediti. Ed è potenzialmente una delle storie più strane mai viste: un gruppo in totale esplosione che perde il proprio cantante all’uscita del secondo disco (un capolavoro), un disco che mai sarà suonato dal vivo. E che invece di crollare sulle proprie ceneri sceglie di ripartire, di ridefinire i ruoli, si tiene stressa la fan base, porta in giro e pubblica un disco pieno di nuove canzoni che man mano ridefiniscono il suono. Non è magia? E cosa c’è in queste tracce? Frammenti sparsi di pura bellezza. Dancers che è quasi un inno indie rock, Turbines/Pigs che ha il coraggio di arrivare a quasi dieci minuti di emozioni distillate tra voci e piano, quella iniziale Up Song che è già un manifesto di una band che non si arrende. Si parlava di futuro, noi ce li teniamo dentro.
5 – Boygenius – The Record
Un disco che sa di classico, un disco che è un pò un classico. Lo capisci: tre nomi fortissimi della scena americana di ragazze con chitarra ovvero Julien Baker, Phoebe Bridges e Lucy Dacus, che avevano già fatto un primo ep insieme si sono messe assieme in maniera abbastanza clamorosa. Sapendo dare la centralità (della scrittura) in maniera alternata, The Records è un disco perfettamente equilibrato che ha, in sostanza, solo belle canzoni. Una piccola magia che ci regala dodici brani che sanno parlare di emozioni, sensazioni, che accavallano le voci. Basta guardare il piccolo “Boygenius – The film” per capire di cosa parliamo.
6- The Murder Capital – Gigi’s Recovery
Dublino: una città che sa sempre regalare qualcosa di nuovo, in particolare chitarre alla mano. I Murder Capital sembrano essere quelli che nel filone post punk sono in grado di scompigliare le carte, in particolare con la sinistra voce di James Mcgovern a cesellare un bellissimo secondo album. Che ci sia qualcosa qui dentro è chiaro anche vedendoli dal vivo. Ancora in itinere, ma se ci fosse un nome su cui puntare in questa scena, beh: loro.
7. The National – Laugh Track
Come per Sufjan Stevens: non vorrei mettere questo disco in classifica. Sono sempre loro, i The National. Perfetti e diventati improvvisamente, dopo una crisi di scrittura non indifferente negli anni scorsi, un gruppo che rilascia due dischi in pochi mesi. Dove il primo non era nemmeno così incredibile, dove il secondo ha scontentato un pò tutti proprio perché non sembrava aggiungere niente. Solo che, alla fine questo secondo gemello, questo Laught Track è spesso tra gli ascolti. Solo che la coda percussiva di Space Invaders è mozzafiato, solo che la batteria torna a farsi potente e nervosa (Deep End, Smoke Detectors), solo che quell’ingenuo, già noto, debole, duetto con Bon Iver poi te lo ascolti ancora e ancora. Insomma: non è chiaro come, ma c’è. C’è.
8. James Blake – Playing Robots in Heaven
A proposito di album sottovalutati e di artisti che sembrano un pò snobbati. James Blake. Ormai adulto, maturo, consapevole, dopo l’apertura al colore e alle sfumature (alla felicità?) ritorna alle sue origini, ovvero l’elettronica, il lavoro perfetto sulla voce, l’originalità nelle idee. Playing Robots in Heaven è un album forse un pò distante dai gusti moderni (proprio lui che era pura avanguardia, ai suoi inizi) eppure è un ottimo disco di elettronica autoriale ben scritta e ben fatta. Basti sentire Loading.
9. Lol Tolhurst, Budgie, Jacknife Lee – Los Angeles
Questo è un progetto completamente inaspettato, che è allo stesso tempo passatista e modernissimo. Due batteristi di storica fama: Lol Tolhurst (batterista dei Cure) Budgie (batterista di Siouxie And the Banshees) e Jackife Lee, produttore irlandese di grande fama si mettono assieme (insieme a tanti featuring importanti) e scrivono un bellissimo album pieno di ritmica, melodia e spunti interessanti. Ah, dentro c’è anche quella che è parsa istantaneamente la canzone dell’anno, quella Los Angeles che dà il titolo all’album, con una meravigliosa performance vocale del buon vecchio James Murphy.
10. Temples – Exotico
Completamente inaspettato. I Temples sono una band della media borghesia: bravi, ma mai troppo in alto nelle valutazioni, nei cartelloni, nella considerazione. In più, non sono nuovissimi, perchè Exotico è ormai il loro quarto album. Eppure, riguardando a tutti gli ascolti degli ultimi dodici mesi, questo disco dimostra una certa solidità. Ben prodotto, ben suonato, spesso nella scia della psichedelia dei Tame Impala (come nella ottima apertura di Liquid Air) e fa piacere premiarlo con un bel posto in classifica. Tantissimi gli altri album che potevano arrivare in questa zona, ma alla fine, anche per numero di ascolti, ci mettiamo loro.
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