Di Sara di Sabatino
(l’articolo sarebbe dovuto uscire su Filo Magazine, che ha scientemente deciso di addentrarsi in problemi tecnici non indifferenti in questi giorni. Una volta stabilizzata la situazione, questo articolo porterà alla versione originale dell’articolo)
Nel suo romanzo d’esordio Sfumature, Alessio Falavena esplora il cambiamento, le difficoltà di comunicazione e le sfide interiori dei suoi protagonisti. In un intreccio di storie parallele, il libro segue le vicende di tre personaggi alla ricerca di se stessi, tra “i pieni di prima, i vuoti di oggi, le relazioni, le amicizie, le distanze allungate tra le persone”. Il libro, in uscita a dicembre, ci invita a riflettere su come un incontro casuale possa diventare il catalizzatore di una trasformazione profonda.
Ma diamo la parola all’autore.
Tre sono i personaggi che racconti, le loro storie sono parallele e sembrano unite da un’azione: scrivere. Una ragazza che vuole scrivere un romanzo, un ragazzo che vuole scrivere musica, un uomo che vuole ri-scrivere la sua vita da zero. Ho provato a fare una riflessione: mentre due di loro sono raccontati da un narratore esterno, in prima persona a parlare è il ragazzo: è un tuo autoritratto nascosto oppure ti senti un mix perfetto dei tre?
A: Credo di non essere nessuno dei tre e allo stesso tempo di essere tutti e tre. Mi spiego: il concetto cardine è che questo è un romanzo di cambiamento e di un momento, quello dell’incipit del libro che scatena qualcosa in ogni personaggio e che porterà ad una svolta o ad affrontare un proprio percorso. È come un acceleratore, una fiamma che si accende su un terreno già infiammabile: questo in fondo riguarda tutti noi. Spesso ci manca l’energia, la fiducia o la possibilità ma tutti abbiamo dentro l’immagine di qualcosa che vogliamo afferrare.
Infine, il punto di vista diverso: dove c’è in effetti una prima persona, diversa rispetto alle altre, sta nel poter inserire un giudizio. Quello che accade nelle prime pagine è un fatto che può capitare nella vita di tutti i giorni e che ci porta, di riflesso, ad etichettare una persona in base a quella azione, a quel frammento, quell’essere umano diventa unicamente quel suo comportamento negativo, null’altro. Eppure siamo più complessi di così, e il fatto che sia quel personaggio a raccontarlo, a viverlo, è esattamente l’inizio del libro per come mi è nato in mente: vorrei mettere in difficoltà il lettore, che deve in un qualche modo trovare sgradevole quella persona, attivare quel meccanismo di etichettatura e poi man mano scoprire e ragionare sul fatto che è tutto ben più complesso, nella natura di una persona.
Nel romanzo, i personaggi si confrontano con un senso di inadeguatezza e una sorta di “oscurità” interiore. Qual è la tua visione del cambiamento e della guarigione? Pensi che un incontro casuale, come quello che descrivi, possa davvero innescare un cambiamento profondo in una persona?
A: A mio parere, per esperienze di vita vissuta e vista, è il grande tema che esiste oggi nella società e che si riverbera in questa grande insoddisfazione. È un’epoca in cui siamo un po’ senza valori collettivi: quello politico è rimasto flebile, quello religioso è quasi scomparso. L’identità lavorativa, specie dopo il covid, è diventata meno l’obiettivo unico per realizzarsi e se ci aggiungiamo il minore interesse per la famiglia e la relazione, rispetto a qualche decennio fa, cosa ci rimane? Spesso resta solo la cultura dell’io. Personale, non collettiva. Nel momento in cui, però, non arriviamo al successo completo, fatichiamo a trovare un appoggio sicuro su cui sedere per non cadere in una spirale di insoddisfazione.
Ce lo dicono: il futuro andrà peggio, avremo meno possibilità, meno figli, meno sicurezze. E quindi come si fa a far scattare quella molla interiore, quel salto in avanti? Sicuramente può essere un fatto casuale, sì. Un’esperienza di lutto, una rottura, un incontro, uno spostamento di luogo, qualcosa che ci faccia sentire vivi rispetto a quel silenzioso fluire quotidiano senza lotte e obiettivi da combattere. Lo credo, almeno. Che possa esistere qualcosa che ci faccia sentire una nuova scarica di energia, magari positiva, magari negativa, ma ci sposta da quella zona di comfort. Non è dal comfort che facciamo le grandi scelte.
“Io ero due metà, una ordinaria e una fatta di musica e notti insonni” scrivi. Mentre leggevo le tue pagine con le cuffie alle orecchie, mi è venuto naturale creare una playlist aleatoria: la musica di solito mi aiuta a guardare meglio dentro alle cose. Questo prima di scoprire che ne hai messa una anche tu alla fine del libro! Sei curioso di come abbia fissato le tue parole in musica?
Cities in Dust, Siouxsie and the Banshees
Life is Simple in the Moonlight, The Strokes
Non sono Immaginario, Afterhours
Go with the Flow , Queen of the Stone Age
Jumping Somone Else’s Train, The Cure
Muori Delay , Verdena
Psychic Dance Routine , Scowl
E tu hai una colonna sonora che ti aiuta a scrivere?
A: La musica è un elemento centrale della mia vita, allo stesso tempo ogni sensazione che scolpiamo in una canzone è estremamente personale.
La tua playlist, ad esempio, è più ruvida della mia, in termini di chitarre: vai tu a sapere se è un caso o hai percepito una maggiore energia rispetto a me, nella scrittura.
Ora che ci penso, potrebbe essere un bell’esercizio di condivisione sociale: “e tu a quali canzoni associ quei momenti?” Si potrebbe chiedere ai lettori di creare una propria playlist che segue le vicende dei tre personaggi!
Per quanto riguarda la mia scrittura, posso dire che è stata totalmente una scelta ponderata, a tavolino. Il discorso è che né io, né la maggior parte, immagino, delle persone che scrivono lo fanno come unico lavoro. Risulta difficile crearsi uno spazio, un cuscinetto in cui rientrare dentro al libro, all’interno delle proprie vite fatte di famiglie, lavori e necessità quotidiane. Così ho scelto: Kerber, un disco di Yann Tiersen. Integrale, strumentale, e profondo. L’ho scelto perché l’avrei poi visto dal vivo qualche mese dopo (e gli ho chiesto di firmare il vinile con un “good luck for the book!”) e perché era un mood naturale in cui immergermi: quasi sempre fuori casa, che fosse un bar o l’attesa di un qualche evento, una piazza, insomma un qualunque luogo che non prevedesse le distrazioni casalinghe, mettevo nelle cuffie Kerber, rileggevo qualche pagina precedente, le note mi aiutavano a riprendere in mano il filo per continuare a scrivere.
Lo stesso disco, per tutta la scrittura, la revisione, l’editing, qualunque cosa: è come avere associato un colore, una parola precisa che mi consentivano di rientrare in quel particolare stato per cui la storia poteva andare avanti.
Permettimi un’ultima domanda: il finale del libro mi pare volutamente in medias res, rimane aperto. Inoltre termina con una suggestiva descrizione di un luogo, quello che poi è stato il primo protagonista presentato all’inizio del libro: una piazza di notte. Sei un sognatore?
A: Sai che è estremamente interessante che tu lo definisca un finale aperto? Perché io lo percepisco come un finale compiuto e chiuso. Ovviamente capisco cosa intendi, ma il mio discorso è che il finale del libro è proprio la fine di questa finestra iniziata con l’incontro delle persone nella piazza: abbiamo poi scoperto chi sono e cosa stanno attraversando e che, fondamentalmente stanno tutti percorrendo una strada, decidendo di diventare grandi o di potersi concedere di essere più risolti, in pace con sé stessi.
Questo è il fotogramma del romanzo: quel momento fondamentale. E in questo senso trovo che si chiuda con una certa decisione e nemmeno ci serva sapere più di quello che sappiamo: ogni vita ha solo un certo numero di momenti interessanti, altrimenti si finisce per leggere lunghe biografie, riducendo l’eccezionale ad un capitolo tra i tanti.
Riguardo al tema del sognatore, dipende su che accezione soffermarsi: in termini di fantasia sinceramente no, mi rendo conto di essere una persona estremamente appoggiata sulla realtà, che osserva le persone e i fatti.
Esiste però anche un altro modo di definire un sognatore: spingersi oltre i limiti del “tanto non cambierà mai niente”. E allora in questo senso sì, immagino di esserlo: un tema che scivola lungo le pagine della storia è, anche, quello della possibilità di scelta di fronte alla propria vita.
Che non vuol dire “se lo vuoi, ci riuscirai” , troppo generico e fin troppo colpevolizzante, semplicemente vuol dire che spesso per un motivo o l’altro non ci mettiamo abbastanza energia o forza interiore in quello che vorremmo ottenere, dentro di noi lo sappiamo, dentro di noi ci rifugiamo in stanchezza, impegni e mancanza di tempo, ma lo sappiamo: siamo noi a non crederci abbastanza.
Forse sono un po’ un sognatore perché non voglio pormi dei limiti, inserire muri che al momento non ci sono: scherzando in questo avvicinamento verso la pubblicazione del libro, ogni tanto parlo del film che ne verrà tratto. Ovviamente è uno scenario complesso, ma perché non dovrei realisticamente credere che sia una cosa possibile, per quale motivo dovrei essere io il freno di un qualunque fatto che possa accadere?
E in fondo questo non vale per tutti noi, per i protagonisti del libro, per ogni vita vissuta sulla terra?